I quaderni della Nonna

Si tratta di una collana di volumetti di ricette tradizionali, tipiche e familiari raccolte dai bimbi della scuola primaria del Monregalese che ogni anno mandiamo ad intervistare le nonne su un argomento/alimento specifico. Dato che il lavoro de “I quaderni della nonna” è fatto per un duplice scopo, da un lato di reperire e raccogliere vecchie ricette e dall’altro di divulgare e tramandare (specie in zona, essendo che i piatti sono intimamente legati al territorio) ricette che potrebbero rischiare di finire nell’oblio, ci siamo posti il problema di come far conoscere e distribuire la nostra opera, al di là della copia “ricordo” donata ad ogni bimbo ed insegnante delle classi che ci offrono la loro collaborazione.
Per i primi dieci anni buona parte dei volumi è finita nel pacco natalizio dell’associazione dei donatori di sangue del Monregalese, ma non volevamo rinunciare ad avere una platea più vasta.
Non volendo tradire la nostra natura di ente no-profit non abbiamo ceduto alle lusinghe di qualche editore e non ci siamo impegolati in avventure economiche e burocratiche (apertura di attività, partita IVA ecc.) e quindi, fedeli alla nostra vocazione di volontariato, abbiamo deciso di sobbarcarci l’onere di presenziare direttamente come ospiti con un nostro banchetto a varie fiere locali ed ormai abbiamo un’affezionata “clientela” che viene a trovarci portandoci amici

Quello che tenete in mano non é un semplice libretto  di ricette ma il frutto di un appassionato riappropriarsi delle proprie origini da parte di alcuni tra i più piccoli alunni dei due distretti scolastici di Ceva e Mondoví.
In alcune classi gli scolari  hanno addirittura avuto dei nonni in cattedra ad interim come docenti e memoria degli usi e costumi del tempo andato, quando nelle nostre zone,  per i piú, l’ “albero del pane” (cosí veniva chiamato il castagno) era una delle principali fonti di sostentamento in una vita grama di fatiche e di stenti.
In altre i giovani ricercatori non si sono limitati ad intervistare le nonne per carpire delle ricette, nostra richiesta minima, ma hanno approfondito l’argomento consultando enciclopedie, trattati di nutrizione e libri  specialistici o rari, antichi e recenti.
In alcuni casi hanno anche “scippato” qualche ricetta a qualificati autori di ieri e di oggi e di ciò chiediamo anticipatamente scusa agli interessati che dal canto loro non se l’avranno sicuramente a male, paghi di aver suscitato la curiositá e l’attenzione di giovanissimi lettori.
Il tutto non sarebbe stato possibile senza il fattivo contributo economico della ditta LEM di Mondovì e della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo che ringraziamo unitamente ai presidenti dei due distretti scolastici Edoardo Ambrassa e Giovanni Scola ed a tutti gli insegnanti che hanno avuto la sensibilità e la costanza di coinvolgere, prima, e di seguire, poi, i loro allievi in questo cammino di ricerca viva.
Per parte nostra speriamo che questa gratificante esperienza possa avere un seguito ed  “i quaderni della nonna” annoverare altre uscite.

L’anno scorso avevamo fatto precedere il titolo “Le castagne” da uno scaramantico numero 1, ed eccoci ora inopinatamente al volume n° 2, Consentiteci allora di cominciare ringraziando la ditta L.E.M. di Mondovì e la Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo per la rinnovata fiducia nel nostro operato, e per la conseguente, determinante contribuzione alle spese della presente opera.
Un grazie poi anche al pubblico di appassionati di cucina e tradizioni locali che ha accolto con interesse la nostra iniziativa ed ha acquistato buona parte delle copie destinate alla vendita.
Anche quest’anno qualche insegnante, specialmente a Carassone, non s’è limitata a far da tramite con gli scolari ma ha “approfittato” della nostra richiesta di collaborazione per stimolare i ragazzi a dare uno sguardo alle nostre radici, fatte di usi virtuosi intrisi di sapienza e dettati dalla necessità e da esperienze secolari, ma anche di superstizioni frutto d’ignoranza.
Un’ignoranza, quella passata, ascrivibile alla scarsa scolarizzazione ed alla mancanza di conoscenze scientifiche, ma non più grave di quella di chi ora vive acriticamente immerso nel presente senza curiosità circa il suo passato ed il suo futuro.
Pure in questo secondo quaderno non solo ricette quindi, ma anche – tra le righe – ricerche, approfondimenti e tradizioni, che è quanto ci proponevamo.
Coi funghi siamo ancora stati, almeno in parte, all’ombra dei castagni in attesa di spaziare più in là per narrarVi piano piano di altre genuine bontà e peculiarità di cui Monregalese è tuttora capace di essere generoso.

I FORMAGGI

Cambiamento di rotta per questo terzo appuntamento, cui non potevamo mancare, coi nostri quaderni; sembra impossibile ma qualcuno già dalla seconda uscita ci domanda cosa sia in cantiere!
La soppressione dei distretti scolastici ci ha impedito, per quest’anno, di coinvolgere i ragazzini delle scuole dell’obbligo ed allora siamo andati noi a scuola di cucina e tradizioni da amici cuochi di provate capacità ed attaccamento al nostro territorio.
Ne abbiamo carpito qualche prezioso segreto che abbiamo integrato con nostri ricordi – anche noi dell’accademia abbiamo la bocca sotto il naso – allo scopo di offrirVi una carrellata della versatilità d’impiego dei formaggi monregalesi, vera gloria locale.
Non a caso il nostro V° capitolo solenne che si celebrerà il prossimo Novembre sarà incentrato su questi prodotti e s’intitolerà “Invito nella terra dei caci”, perché nessuna zona, che noi si sappia, è tanto ricca di varietà casearie come la nostra.
Prima di lasciarVi al godimento delle ricette mi corre l’obbligo di dire ancora due cose.
Un doveroso grazie ai cuochi ed agli altri amici che hanno collaborato alle ricerche ed alla stesura della presente opera ed, in particolar modo, alla Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo che ci ha sostenuto economicamente dal primo numero.
Nelle ricette noi abbiamo utilizzato solo alcuni dei formaggi locali, ma ve ne sono molti altri (Val Casotto, Testun, Ormea, Gioda, Robiole di Mondovì e Ceva, Sola, Toma Piemontese, Nostrale, erborinati vari, ecc.) degni quanto quelli indicati ed ai quali possono essere benissimo – quando simili – sostituiti; un po’ diverso il discorso per altre, magari più note, tipologie: i risultati saranno senz’altro degnissimi, ma i profumi delle erbe dei nostri pascoli, che godono ancora degli influssi dell’aria del vicino mar Ligure sono unici !

Buon appetito, dunque, coi gusti che la lavorazione artigianale a latte crudo non fa evaporare ma conserva ed una sapiente stagionatura addirittura esalta.

“It veuli sté bèn un meis?. Marijte!.
It veuli sté bèn n’ann? Massa el crin!.”
( Vuoi star bene un mese?. Sposati! .
Vuoi star bene un anno?. Ammazza il maiale!)

La prefazione potrebbe anche finire qui. Antica saggezza popolare…
Ma due cosette le aggiungiamo ugualmente, non foss’altro per dire che nei tempi andati il maiale era considerato una ricchezza da sfruttare fino in fondo: non se ne buttava via niente, tutto era utilizzato (dalla carne alle setole, dalle ossa al sangue).
Oltretutto per molti magari era l’unica carne che nel corso dell’anno, a meno di un malato in casa o di un evento particolare, si mangiava istituzionalmente, celebrando un “rito” e facendo una grossa festa che coinvolgeva il vicinato quando, all’inizio dell’inverno, si procedeva alla sua uccisione ed alla lavorazione delle carni. E non solo da noi: in tutta Europa e specie lungo l’arco alpino era venerato S.Antonio Abate, raffigurato con un maialino a fianco, ed in suo nome un porco veniva allevato da tutta la comunità allo scopo di offrire una festa anche ai poveri.
Ci hanno segnalato un detto calabrese che la dice pure lui lunga sulla considerazione in cui erano tenuti i suini: “Si ‘u porcu avissi l’ali ‘u chiamerianu “ arcangelu Gabrieli”
(se il porco avesse le ali si chiamerebbe Arcangelo Gabriele); se si ha presente la gerarchia celeste…
Venendo poi alle ricette v’è da dire che per alcuni piatti le dosi non sono per 4/6 persone
(lo abbiamo indicato) semplicemente perché non adatti a modiche quantità, e non perché suggeritici da ristoratori professionali abituati a sfamare schiere di avventori.
Gli amici cuochi, che ringraziamo per la cortese collaborazione, hanno inoltre trovato difficoltà (ce lo hanno detto ripetutamente, uno indipendentemente dall’altro)
nell’indicarci esatti tempi di cottura e non perché non se ne intendano ma, anzi, perché sono talmente padroni della materia che il tempo lo decidono di volta in volta, solo dopo aver soppesato e giudicato il pezzo di carne che hanno per le mani, variandolo in ragione dell’età della bestia o della sua maggiore o minore magrezza.
Perché si dovrebbe tener conto che il maiale attuale è molto diverso dai suoi avi di qualche decennio fa: mediamente è molto più magro, viene macellato più giovane ed è anche possibile, nella nostra provincia ad esempio, consumarlo in tutta tranquillità ( anche sotto forma di salumi) dato che ai severi controlli veterinari sempre più spesso si aggiunge la tracciabilità della carne, garantita da consorzi di qualità.

Noi profani e cuochi della domenica dobbiamo, in attesa di imparare l’arte, limitarci a sorvegliare la cottura per rispettare ed ottenere il meglio da questo dono del Signore .

Un graditissimo ritorno alle origini per questo 5° volumetto!.

Volenterose insegnanti delle elementari ci hanno comunicato – e confermato coi fatti – che volere è potere e che con i P.O.F.( Piani di Offerta Formativa ) si sarebbe potuto riprendere il discorso di collaborazione allacciato con le scuole per i primi due anni e poi interrotto per via della soppressione dei distretti scolastici.

Siamo dunque stati in due plessi a raccontare ai ragazzini una “Storia”
particolare: quella dell’alimentazione dei loro avi, prima e dopo la scoperta dell’America, e del come, quando e perché questi mangiassero o meno certi cibi.

Insieme abbiamo visto come molte abitudini che si danno per scontate in effetti abbiano avuto vicende lunghe e travagliate prima di essere accettate come “normali” ( le patate ad. esempio sono comparse stabilmente sul mercato di Torino solo nel 1804).
Ed inoltre che la cucina, anche quella tradizionale, non è un unicum immutabile, ma una cosa viva, spesso molto simile a quella di altri luoghi, fatta per lo più di saperi antichi, ma anche di nuovi, in un continuo divenire che si evolve grazie a nuovi commerci e conoscenze.

Ed allora, visto che ad es. uno dei nostri storici vanti locali considerati più tipici, il “furmentin”, è anche detto “grano saraceno” ( e che porta quel nome perché arrivato dal lontano oriente, mentre il “granturco” ce l’ha portato Colombo da occidente) ci è parso giusto coltivare sì la tradizione, ma non in modo retrivo, con una piccola apertura al nuovo e diverso che ci incalza in modo sempre più pressante.

Pertanto, fra tante ricette “indigene”, ne troverete anche una tipica marocchina, fornitaci da uno degli alunni che, pur provenendo da altre civiltà, hanno seguito con interesse e contribuito al lavoro di ricerca, imparando anche a conoscerci meglio e creando così pure i presupposti per una loro migliore integrazione basata sul rispetto delle reciproche peculiarità, facenti ormai parte del DNA di ognuno di noi.

Piano, piano finalmente siamo arrivati ai… primi! E che primi!
Il grande Aldo Fabrizi, di cui molti si ricorderanno, vi ha pure dedicato un libro in versi “Nonna minestra” che, prima ancora che un ricettario, è un’opera di elevazione morale che insegna ad amare i prodotti della terra ed a comprendere, rispettare e coltivare la tradizione.
Già la prima quartina dice quasi tutto:

Eccheve che vordì  “Nonna minestra”:
‘na gioia antica che s’è fatta rara,
na cosa tera tera, ‘na scolara
che nun sapeva d’esse ‘na maestra.
E poi ancora, nella seconda poesia:
La pastasciutta, alberghi e ristoranti,
la fanno, bene o male, tutti quanti.

Ma le minestre de la Nonna, invece
nun poi trovalle de niuna spece.

Moniche e frati dentro li conventi
fanno ‘la zuppa mista e so’ contenti.

Molto più prosaicamente, anche noi siamo stati mossi dalle stesse considerazioni-motivazioni di ritorno alle origini in cui il pane ( non quello bianco di farina troppo raffinata, ma quello bigio integrale, o nero di segale, o di castagne, o misto) era il nutriente principe e non veniva cotto tutti i giorni ma ogni quindici o più.
Ecco che allora sorgeva il problema di variarlo un po’ nel gusto e di renderlo addomesticabile dalle dentature degli anziani, una volta che diventava duro. Le zuppe sono nate così, ed infatti l’etimologia si rifà al pane inzuppato, e nobilitato, da qualcosa di brodoso.
Era solitamente compito delle nonne raccogliere nell’orto e poi mettere sulla stufa al mattino e seguire nella lenta cottura quello che, col pane inzuppato o sbriciolato, sarebbe stato il pasto serale della famiglia nuovamente riunita.
Anche quest’anno ci corre l’obbligo di ringraziare le scuole elementari di Roccaforte Mondovì e di Carassone che, grazie alle nonne particolarmente coinvolte dall’argomento, ci hanno procurato  pregiato e copioso materiale tra cui non è stato semplice scegliere.

“ Se costassero un Euro l’una invece che alla dozzina probabilmente le uova godrebbero della considerazione che loro spetterebbe di diritto per la loro valenza biologica e versatilità in cucina!”
Questo è stato l’incipit, che dovutamente vi giro, di quella che doveva essere una breve conversazione – relazione del nostro confratello Silvio Matteo Borsarelli, professore di scienza dell’alimentazione all’istituto alberghiero Giolitti di Mondovì ed alla facoltà di agraria di Torino, sede di Cuneo.  Ma poi la trattazione è stata talmente chiara e coinvolgente che le domande non finivano più ed abbiamo deciso seduta stante di affidargli anche due facciate di appendice tecnica che troverete in coda alle ricette.
Per parte mia mi limiterò a riferirvi qualche semplice “dritta” pratica circa l’utilizzo di questo magnifico regalo del buon Dio, questa cellula quasi completa dal punto di vista nutrizionale ( manca solo di carboidrati) che, dopo un tentativo di demonizzazione negli anni ’80 per un presunto eccesso di colesterolo, sta giustamente tornando in auge.
Le uova si conservano bene abbastanza a lungo per via del lisozima, in frigorifero per circa un mese. Comunque quelle fresche, immerse in acqua restano coricate, per rialzarsi poi, fino a rimanere dritte o addirittura a galleggiare, mano a mano che invecchiano. Una volta sgusciate le uova fresche mantengono poi un tuorlo ben bombato, a cupola, ed un albume bianco candido e poco liquido. Per conservarle al meglio vanno tenute con la testa ( la parte più appuntita) in giù e possibilmente nella loro confezione di imballaggio, anziché nei poco igienici – se non disinfettati continuamente – fori allestiti dai fabbricanti di frigoriferi.
Occorre lavarsi sempre bene le mani con sapone, prima di fare qualsiasi altra cosa, dopo che si è toccato il guscio delle uova crude. La salmonella, quasi esclusa nel caso di allevamenti industriali, se c’è si annida sull’esterno del guscio e non nel contenuto dell’uovo. Il lavaggio del guscio, pur prescritto dalla legge, serve a poco e il succo di limone – usato per l’uovo all’ostrica – non è  in grado di contrastare eventuali batteri.
La cottura delle uova col guscio va fatta immergendole in acqua fredda portata a fuoco medio al bollore. Una volta raggiunto questo punto basterà spegnere la fiamma ed estrarre dopo circa 1’ le uova che si vorranno alla coque, lasciando invece immerse quelle che si desiderassero sode.
Una cottura troppo prolungata provoca la formazione di solfuro ferroso – visibile come patina vedastra che avvolge il tuorlo – che, in quantità eccessiva, può essere dannoso e che l’immersione in acqua freddissima nasconde solo, sparpagliandolo, ma non elimina.
Immergere in acqua ben fredda le uova sode facilita molto la spellatura.
In padella per ottenere una buona cottura occorre scostare delicatamente, allargandolo, l’albume dal tuorlo e per delle uova strapazzate fatte a regola d’arte e ben digeribili bisogna che il fuoco sia dolce.

Meglio essere subito chiari: non cercate qui ricette di tisane ed affini non le troverete!
Noi ci rivolgiamo a persone sane e mosse da un sano appetito.
Malati ed ipocondriaci li lasciamo ad altri, dato che non intendiamo “pascolare abusivamente” in campi che dovrebbero essere assolutamente riservati ad esperti che sappiano destreggiarsi tra i principi attivi-e talvolta negativi, specie se assunti in eccesso-contenuti in tante erbe.
Ciò non di meno, anche se non siamo erbivori, non disdegniamo di arricchire di colori e sapori particolari di stagione preparazioni che altrimenti sarebbero monotone o scialbe e, a volte, ci concediamo pure qualche liquorino.
Lungi da noi infatti rinnegare gli antichi saperi delle nostre nonne che s’ingegnavano di utilizzare al meglio tutto quello che la natura-madre provvida, come si usava dire una volta, ci offre, ricavandone piatti appetitosi e salutari.
Precisiamo poi che il concetto di erbe l’abbiamo un po’ allargato a tutti quei vegetali ottimi come complemento/integrazione ad altro ma non bastanti da soli per preparare un piatto.
Abbiamo anche cercato di fare tesoro degli insegnamenti del Confratello Silvio Matteo Borsarelli che una sera ci ha sommariamente edotti sulle non poche e non secondarie proprietà che anche usate in cucina le principali erbe continuano ad avere, soprattutto se stufate anzichè cotte altrimenti.
Così, rafforzati nella convinzione o potremmo dire missione?) di non lasciar disperdere il bagaglio di cultura e tradizioni che una volta era patrimonio comune di tutti, vi proponiamo il presente volumetto.
Il quale, segnaliamo infine, già solo nell’opera di ricerca, affidata come al solito ai bimbi delle elementari di Carassone e Roccaforte Mondovì, ha avuto il merito di avvicinare alla natura molti scolari alcuni dei quali non si sono limitati a procacciarci le ricette, ma si sono interessati anche alle materie prime che ne erano l’oggetto, preoccupandosi di saperle riconoscere e raccogliere a tempo ed ora. E non è poco.

Appena comunicato l’argomento del presente quaderno, due distinte persone mi hanno citato un detto nostrano:
“fomne, galine e oche: barbene tante e mantnine poche”!

(donne, galline ed oche: gustatene tante e mantenetene poche!) che cito per dovere di cronaca ma, pro bono pacis, evito di elevare a motto dell’anno non essendo politicamente corretto.
E in parte per lo stesso motivo, ma soprattutto perché non è un animale da cortile, non abbiamo inserito la ricetta
“gatto arrosto” procurataci da un solerte scolaro cui la nonna ha evidentemente raccontatola consuetudine invernale di un tempo. Infatti il citato felino, ben frollato sotto la neve, fungeva
abbastanza comunemente da ottimo succedaneo del coniglio, addirittura arrivando ad avere per alcuni dignità di galuperia.
Venendo però nel concreto al ricettario mi corre l’obbligo di fornire alcune brevi notizie.
Alle ormai storiche collaborazioni delle scuole elementari di Carassone e Roccaforte quest’anno se ne sono aggiunte altre da Serra Pamparato e Vicoforte, cui va la nostra gratitudine.
La ragione per cui il coniglio vanta più ricette degli altri animali è che è l’unico non volatile qui preso in considerazione.
Comunque coniglio, gallina, pollo ed in parte tacchino sono abbastanza intercambiabili nelle rispettive ricette, con quasi solo mere differenze di tempi di cottura (un po’ più lunghi per gallinae tacchino).
Con la stampa del presente quaderno, non ostante una distribuzione quasi inesistente, affidata solo alla buona volontà di qualche amico “spacciatore” e alla partecipazione a qualche fiera in ambito locale, abbiamo superato le 50.000 copie complessive di tiratura, della qual cosa ringraziamo in primis quanti hanno gradito la nostra iniziativa spronandoci a continuare.
Da ultimo un bambino ci ha fatto un simpatico excursus storico rammentando che i capponi erano piatti da “signori”, a Natale omaggio d’obbligo – addirittura imposto da alcuni statuti – del
mezzadro al proprietario del fondo; i contadini si consolavano dicendo: ” i son nen capon pì pagà
‘d coj regalà”!

(non ci sono capponi più pagati di quelli regalati).

Mei un piasì che sent disgust!
(meglio un piacere che cento dispiaceri!).

Alla faccia di tutti i dettami della nutrizione assennata e consapevole, i moniti dei dentisti e quant’altro, le persone con mancanze affettive devono avere i loro placebo, e poi pure la vituperata categoria dei golosi ha comunque i suoi diritti.
L’uscita del decimo quaderno, celebrata anche con la predisposizione di un raccoglitore, ci è sembrata l’occasione giusta per accontentare quanti, non paghi delle ricette poste alla fine di quasi tutti i precedenti volumi, fin da subito hanno iniziato chiedere insistentemente “a quando i dolci?”.
La scelta di cosa pubblicare è stata, quindi, particolarmente ardua e complicata dal molto che è già presente nei primi quaderni, soprattutto in quelli dedicati alle castagne ed alle uova: ricette che non volevamo ripetere ma che v’invitiamo a riconsultare per quanto di tipico non troviate qua, e dalla mole – oltre 250 elaborati –  di quanto ci è stato procurato dagli scolari di Roccaforte e Carassone, cosa che ci ha fatto optare per rimandare l’argomento torte ad un’altra uscita.

Anche e specie in quest’occasione, poi, abbiamo avuto la riprova del fatto che ogni famiglia se la “tuirava” (=”rigirava” nel senso, per i non indigeni, di “si arrabattava”) come poteva/voleva, con libere interpretazioni, aggiunte e variazioni anche su temi classici. Con viva soddisfazione abbiamo, infatti, ricevuto dai bimbi molte ricette di copete, paste d’meria, torte di nocciole – per le quali abbiamo fatto un’eccezione – e bonet (= budini), vere glorie locali codificate, ma non troppo, da una consolidata tradizione di cui ogni casa era – e spesso è ancora – depositaria di una sua originale ed autonoma variazione sul tema.

Varcato il traguardo del volume n.10, con relativo cofanetto/raccoglitore, con questa nuova fatica intendiamo proseguire,  senza porre dei limiti alla divina provvidenza, la nostra opera dedicata alla salvaguardia delle nostre radici, specie quelle della cucina popolare tradizionale.
Ecco dunque un argomento ad hoc, che oltretutto capita a fagiolo in un momento di crisi economica in cui occorre fare attenzione al portafoglio ed evitare sprechi, secondo i dettami di una sana, vecchia economia domestica.
Premettiamo subito che oltre alle frattaglie in senso stretto abbiamo incluso anche ricette di nervetti,  coda e ganascini che,  con le predette , fan parte anch’essi del così detto “quinto quarto”, cioè le parti che restavano una volta prelevati i tagli più pregiati, ed in quanto tali riservati ai “ricchi” od alle grandi occasioni.
I tagli “poveri”, però, al contrario di quelli “nobili” (o, meglio, ritenuti tali), vedevano raddoppiati gli sforzi e gli artifici delle massaie e degli osti per renderli più appetibili ed appetitosi: volete mettere il profumo di una scodella di minestra di trippe con quello di una malinconica fettina?
E poi “poveri” di cosa?, e perché denominati tali ?.
Il fegato, ad esempio, di proteine ne vanta quante la carne ed abbonda di sali e vitamine – in particolare la B12 – così come il rognone che ha appena un pizzico di proteine in meno, ma forse per alcuni, al pari della lingua, un po’ troppo colesterolo.
La trippa, poi, di proteine ne ha il 18% e di grassi solo l’ 1% ed è quindi magrissima; se proprio le si vuole trovare un difetto è che abbonda di tessuto connettivo (spesso scambiato per grasso) che richiede una lunga cottura per esser facilmente digeribile.
Inoltre nulla v’è da temere dal punto di vista sanitario-igienico!. Forse non tutti sanno che i veterinari preposti ai controlli ai macelli ancor oggi per accertarsi dello stato di salute di un capo ne esaminano sempre le interiora.

Il riscontro che abbiamo avuto dagli scolari di Roccaforte, e dalle loro nonne, è stato incoraggiante e testimonia, ad esempio con un’infinità di ricette di minestra di trippe, che l’ attaccamento alle tradizioni e l’impegno che si mette nel cucinare per i nostri cari da noi non sono ancora morti, ma tutt’al più sopiti. E sono appunto i sentimenti che auguriamo di mantener vivi, o risvegliare, nei nostri affezionati lettori.

Dopo la botta di vita e gli stravizi dei dolci e delle frattaglie degli ultimi due anni ci è parso doveroso dare ascolto ai dietologi e darci una regolata facendo un po’ di “quaresima” con del sano pesce, alimento magro ma al tempo stesso ricco dei pregiati grassi polinsaturi, specie gli omega 3, che fanno tanto bene. Una volta, infatti, e i meno giovani se lo ricordano bene, la carne era bandita dalle mense tutti i venerdì dell’anno e per tutta la quaresima e chi se lo poteva permettere “ripiegava” sul pesce.
Ed era un ripiego per modo di dire: le nostre nonne dicevano che l’apporto di fosforo che garantiva fosse determinante per la memoria e miracoloso – quasi come il mitico pane e volpe – per l’intelligenza.
Nella nostra tradizione oltre al pesce di acqua dolce, che bene o male ci si poteva procurare andando a pescare anche a mani nude nei gorghi (gran divertimento per i ragazzini), pur nell’attesa dell’uso industriale della refrigerazione. per non parlare della surgelazione, storicamente almeno dal medio evo grande spazio è stato dato a due specie di pesci di mare: le acciughe ed il merluzzo.
Ambedue le specie ci arrivavano conservate sotto sale: le prime dalla vicina riviera grazie al costante interscambio di prodotti che v’è sempre stato con le nostre zone ed al commercio dei famosi acciugai della val Maira che d’inverno lasciavano i loro monti per incrementare il magro bilancio familiare con questa attività, il secondo addirittura dai pescosi mari del nord e noto col nome di origine portoghese di baccalà.
Dopo un periodo di appannamento e di sbornia carnivora, adesso il pesce, anche per motivi come detto dietetico-nutrizionali, sta tornando di moda.
Quest’anno alla storica collaborazione della scuola primaria di Roccaforte s’è aggiunta quella degli scolari della classe terza di Branzola , interessata all’argomento dal fatto che la loro frazione è in predicato di divenir una località rivierasca, se mai l’invaso artificiale Serra degli Ulivi, così necessario all’agricoltura locale, verrà finalmente realizzato, e loro, saggiamente, vorrebbero farsi trovare pronti…

Mondovì, li 28/07/2013
Accademia della
Castagna Bianca di Mondovì
Guido Viale

P.S.: Un piccolo rinforzino, data la specificità dell’argomento, lo abbiamo chiesto pure a due amici e cuochi professionisti: Bastian Dho del ristorante Corsaglia dell’omonima località sull’omonimo pescoso torrente nell’omonima verdissima valle e Ivo Bruno dell’agriturismo Acqua viva di San Biagio, che sentitamente ringraziamo e le cui quattro ricette troverete per ultime.

Preparando questo quaderno ci é venuto in mente che una volta, mutuando il modo di dire dal Totocalcio, si diceva aver “fatto 13” per significare aver fatto centro, tombola, insomma avere successo e lo stesso risultato speriamo di ottenere con “Gli Antipasti”, dedicato a queste portate che sono vero vanto, gloria e carattere distintivo della cucina piemontese.
In Piemonte infatti, prima dei primi, anziché caotici “buffet di aperitivi” in piedi, ora purtroppo in voga, siamo soliti preparare alle portate principale del pasto i commensali, già comodamente seduti a tavola, con una serie semi-infinita di piatti da assaporare con tutto comodo (alcuni dei quali, magari non esclusivi della nostra terra ma che in altre regionivengono proposti come secondi) che sconcertano i forestieri non avvezzi e che, se non affrontati con la debita cautela, data la loro abbondanza e gli abituali “ripassi2, son capaci di stroncare anche gli appetiti più robusti.
Allestire il libretto, nonostante o proprio pe rla mole di ricette pervenuteci-anche direttamente oltre che dalle mai abbastanza ringraziate scuole elementari di Roccaforte-non è stato cosi semplice tanto più se si pensa che una sessantina di altre ricette sono già sparse in tutti i volumi precedenti eccetto il 6 (Le zuppe) ed il 10 (IDolci) e fonché possiamo non volgiamo “riciclare” cose già dette.
Un’ altra difficoltà l’abbiamo incontrata nel decidere l’ordine di impaginazione delle medesime: andare per ingredienti?, o mettere prima gli antipasti crudi poi quelli cotti?, o ancora iniziare con gli antipasti da servire freddi e proseguire poi con quelli caldi?. Pe rlo più abbiamo adottato l’ultima soluzione, ma con qualche eccezione che speriamo sarà perdonata.
Dicevamo dell’ abbondanza di ricette ricevute che ci ha costretto a dover compiere delle non facili scelte e per alcuni classici, quali insalata russa, capricciosa, vitello tonnatè, abbiamo avuto un particolare imbarazzo-e rimpianto di non poter inserire tutte le varianti-tra tanti piatti simili ma ognuno con un qualche, a volte anche significativo, particolare accorgimento ormai codificato nel DNA familiare da non si sa che personaggio (magari bisnonna, od ancora precedente ava) che si era ingegnata di apporre qualche segreta miglioria), e noi alle tradizioni ci teniamo.

Mondovì, li 28/07/2014
Accademia della
Castagna Bianca di Mondovì
Guido Viale

Continuiamo a far festa con piatti che per la loro preparazione un tempo impegnavano le massaie, spesso col concorso di tutta la famiglia, ogni vigilia delle solennità più grosse, quando non ogni sabato: una bella abitudine che sarebbe bello non perdere tenendo presente che è possibile servire tante di queste preparazioni a mo’ di piatto unico, completo e sfizioso, addirittura risparmiando tempo rispetto ad un pasto tradizionale completo.
Ci sono diverse teorie e tradizioni sulla nascita di queste manicaretti: ad esempio è documentato che a Gavi già alla fine del ‘200 operava una schiatta di trattori di nome Raviola, – punto di sosta dei “cartunè” che facevano la spola tra Piemonte e Liguria – e che dal loro derivi il nome del forse più famoso di questi piatti, ma sembra altrettanto sicuro che in generale l’origine di queste preparazioni sia dovuta all’inventiva di qualche massaia stimolata dalla necessità di recuperare avanzi che secondo la morale una volta vigente sarebbe stato un peccato sprecare.
Che dal doveroso ed umile riciclo – tema a noi caro e da riprendere per una sana e consapevole economia domestica – agnolotti, cappelletti, lasagne, raviole, ecc. siano poi assurti ai fasti del piatto principale dei menù del giorno di festa è stata la logica conseguenza dell’apprezzamento, del successo riscosso ed anche dell’impegno richiesto per la loro preparazione, che veniva così interpretata come un anticipo della festa che si sarebbe celebrata il giorno seguente.
Non ci addentriamo nelle dispute sulla primogenitura delle varie specialità né sulla corretta ed ortodossa ricetta o interpretazione dei vari piatti né se sia più corretto dire raviole ( che a noi piace di più) o ravioli (come vorrebbe il programma di correzione automatica del computer), ma non possiamo non rimarcare come nelle nostre lande ancora oggi in molte famiglie le raviole, se non altrimenti esplicitamente specificato, si intendano “al vino” ( scolate bollenti in scodelloni e poi affogate con vino rosso corposo) e che in alcuni ristoranti, non ancora contaminati da mode di cucine nuove o molecolari, vengano ancora proposte così oltre che al burro o al ragù.
Da ultimo riteniamo, non senza malcelato orgoglio, che non sia un caso che un noto laboratorio artigianale di Mondovì abbia conquistato nel 2004 il primo premio per il concorso nazionale di Foligno riservato alle paste ripiene con i “ravioli al plin con ripieno di Raschera”.

Mondovì, li 28/10/2015
Accademia della
Castagna Bianca di Mondovì
Guido Viale

Scroll to top