Cosa mangiavano i nostri Nonni ?

 

            (appunti di storia dell’alimentazione per chiacchierate con scolari delle elementari, università della terza età, ecc.)

Quotidianamente compiamo per abitudine una serie di atti che diamo per scontati: appena alzati apriamo il frigorifero, preleviamo il cartone del latte, accendiamo il gas, spalmiamo di marmellata i biscotti, apriamo la confezione delle merendine o prepariamo dei bei panini morbidi con le farciture più svariate, magari filetti di peperone, ecc., ecc. .

Ma è sempre stato così? E i nostri nonni cosa mangiavano?. E i nonni dei nostri nonni?.

I frigoriferi nella maggior parte delle case sono apparsi negli anni 60 del secolo scorso e il latte a lunga conservazione è entrato in voga ancor dopo; prima nelle città vi era un gran numero di latterie, le cucine andavano a legna, i rari biscotti erano fatti in casa solo in occasione di qualche ricorrenza particolare, anche la marmellata, apparsa nel tardo medioevo, è stata a lungo un cibo da ricchi, non solo non v’erano le merendine preconfezionate ma anche il pane bianco e fresco di giornata, se non nelle grandi città, è arrivato relativamente tardi sulle mense, così come i peperoni, che a Carmagnola, hanno iniziato a coltivare negli anni ’20. Eppure la gente cresceva e compiva lavori pesanti che richiedevano un adeguato apporto calorico per essere svolti. Probabilmente di solito, pur tra tante paure di patire la fame e ricorrenti carestie, non era la quantità minima indispensabile che mancava, ma il superfluo e soprattutto la varietà (necessaria per una alimentazione equilibrata, dato che nessun cibo è perfetto e completo di tutti i nutrienti di cui abbisogniamo per vivere veramente bene in salute) .  Da sottolineare poi  che v’era una gran diversità tra la dieta base della stragrande maggioranza rappresentata dal popolino e quella dei ricchi (castellani, alto clero e pochi altri).

Quando parliamo di gastronomia intendiamo una sorta di cultura materiale perché riguarda cose concrete della vita di tutti i giorni alla cui base stanno, però, un mucchio di nozioni frutto d’esperienze pratiche tramandate da una generazione all’altra. Le confraternite eno-gastronomiche hanno promosso una serie di studi ed incontri che hanno chiamato Saperi-Sapori perché appunto alla base dei vari sapori dei cibi che gustiamo ci stanno tanti “saperi” fatti ad esempio di tecniche di confezionamento (tipi di pentolame, di cottura, i condimento, ecc.), o di conservazione (in scatola, sotto, sale, sotto vuoto, surgelazione, pastorizzazione, ecc.), per non dire delle ibridazioni. E’ una materia che richiede molta interdisciplinarità con altre (ad esempio storia, geografia, medicina, igiene e religione) per poter essere studiata a fondo rendendosi conto di cosa c’è dietro a tante cose solo apparentemente semplici o spesso date per scontate senza domandarsi dei perché. Ad esempio perché in Cina non allevano bovini ed invece del formaggio mangiano il tofu ? Il motivo è la deficienza di lattasi, l’enzima che che permette di digerire il latte, che è assoluta in quel paese e relativa nell’area mediterranea, mentre è completamente assente presso le popolazioni nordiche e barbare che invasero l’Europa portandosi appresso le loro fonti di proteine (i loro greggi e le loro mandrie) da cui ricavano latte e formaggi. 

Intervistando i vostri nonni vi siete probabilmente sentiti raccontare di una dieta composta principalmente da castagne, polenta e patate, ma non è sempre stato così: le castagne, originarie dell’Asia Minore, ci sono arrivate attraverso la Grecia nell’antichità per poi quasi sparire fino all’impero carolingio, quando la coltivazione del castagno riprese vigore per opera dei frati benedettini; il furmentin (il grano saraceno per la polenta bigia) da noi è arrivato dopo il mille col ritorno dei primi crociati, così come un mucchio di alti prodotti definiti “saraceni”, e la polenta gialla e le patate solo dopo la scoperta dell’America.                                Da notare che il mais da noi si chiama granturco perché arriva da lontano, oppure meglia o meria, come il sorgo col quale ha una discreta somiglianza subito notata dal savonese Michele da Cuneo (compagno di Cristoforo Colombo). Le patate, poi, sono state considerate a lungo piante ornamentali e al mercato di Torino sono apparse, a scopo alimentare, solo nel 1803 e tale uso è stato promosso durante il regno di Luigi XVI da Antoine Augustin Parmentier, farmacista dell’esercito francese, che le aveva sperimentate in occasione della sua prigionia in Prussia (dove venivano date per scherno ai prigionieri perché alimento altrimenti riservato ai porci). Dall’America, oltre i prodotti summenzionati, sono arrivati anche i fagioli (meno i vigna, quelli dell’occhio) i peperoni, i pomodori (allora gialli, donde il nome, e poi nei secoli modificati geneticamente), le zucche tonde, i topinambur, il peperoncino (che soppiantò le altre spezie in voga fino allora, facendo venir meno il florido commercio di spezie delle repubbliche marinare), i girasoli, il cacao, i tacchini, ecc… E dall’Europa al nuovo continente viaggiarono invece, ad esempio, la canna da zucchero, il caffè (che ora reimportiamo e siamo quasi portati a ritener di lì originari), i bovini e gli equini.   

                            Ma come si fa ad avere notizie circa l’alimentazione e la sua storia?.

Per le epoche più remote con ritrovamenti archeologici, per quelle già storiche anche attraverso gli scritti degli autori antichi che ci sono pervenuti. Possiamo dire che i cambiamenti più rilevanti sono intervenuti appunto con i viaggi di Colombo e che ne possiamo apprezzare l’importanza grazie al fatto che Bartolomeo Platina, un umanista del ‘400, aveva scritto in latino, giusto pochi anni prima, le ricette di Maestro Martino facendo un compendio della cucina medievale.

Possiamo poi vedere che tanti cambiamenti sono stati forzati  anche da altri fattori, quali la crescita della popolazione urbana nel XVI°   secolo che comportò la necessità di variare la dieta per la difficoltà negli approvvigionamenti di verdure e carni fresche (i tempi di trasporto erano infinitamente più lunghi di quelli attuali e le merci deperivano in fretta). Abbiamo infatti i dati dei servizi annonari, quelli che curavano i rifornimenti delle derrate alimentari, e dei dazi, che curavano la riscossione delle varie gabelle cui i loro trasferimenti erano assoggettati. I napoletani nel ‘600 da “mangia-foglia” diventarono per forza di cose “mangia-maccheroni”: non era infatti più possibile garantire verdure e carni fresche per tutta la popolazione con gli orti ed i poderi vicino alla città ed allora, dato che il grano poteva viaggiare ed essere immagazzinato dal momento che si conserva bene, si passò ad una dieta a base di pastasciutta. Per mangiare la pasta, che scotta ed è viscida, si inventò e cominciò ad usare la forchetta, dapprima di legno ed a due rebbi, che può legittimamente assurgere a simbolo della civiltà mediterranea e della sua dieta (altrove questa posata non era, e talora non è ancora adesso, usata). I francesi, poi, che in campo eno-gastronomico sono un po’ considerati i maestri, la forchetta risulterebbe l’abbiano conosciuta solo col matrimonio di Caterina de’ Medici col futuro Enrico II° a metà del ‘500, quando questa si portò in dote un servizio di posate d’oro, oltre ad un cuoco al seguito, che insegnò a fare i gelati ed altro.     

 Ma allora cosa mangiavano di solito i “nonni dei nonni” prima dell’avvento dei cibi americani ?

Per lo più grandi zuppe fatte principalmente di molta acqua, cavoli, rape (le patate di una volta) ed altre verdure, legumi, un soffritto di lardo (od olio), cipolla, aglio e sale. A volte con l’aggiunta di un pezzo di carne salata od osso. Col brodo si bagnava il pane – nero o bigio (segale, orzo o farro) – raffermo, perché si andava al forno solamente ogni quindici giorni almeno, con la necessità di ovviare ai conseguenti problemi di masticazione, donde si dice ancora adesso “inzuppare il pane”. Quando si poteva la zuppa era di trippa e quando si macellava il maiale se ne facevano cuocere le parti meno nobili, che non potevano esser destinate alla salagione e conservate, assieme a cavoli e/o rape (piatto presente in tutta Italia). La sera, poi, il pasto consisteva spesso in una semplice, classica “zuppa” di latte (o caffe-latte, magari realizzato tostando l’orzo o la cicoria) e pane. 


Con la carne di bue, ma era sempre la “stessa minestra”, si preparavano la “pot-au-feu”francese, la olla potrida” spagnola e la “pignatta maritata” napoletana. La necessità di arricchire di carboidrati e grassi portò ad aggiungere, oltre al pane, anche cereali e legumi (orzo, grano, riso, farro, ceci, lenticchie, ecc.) creando le lasagne, il “cus-cus”, la “paella”, eccetera.         
D’altro c’era veramente poco.

 

NB) Da notare infine che il vino, dove c’era, per le classi umili più che una bevanda era un vero e proprio alimento, capace di fornire l’energia necessaria per svolgere i loro faticosi lavori e di essere “smaltito” in tempo reale senza sovraccarichi digestivi (l’alcol infatti fornisce 7 calorie per grammo, contro le 4 dei carboidrati): la zuppa veniva fatta col vino e anche le castagne bollite e le raviole, se non altrimenti specificato, erano rigorosamente al vino.

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